Un mistero archeologico tra mito nazionale, sciamanesimo e identità.

Kazakistan: cosa viene in mente sentendo questo nome? Forse un’enorme distesa remota, crocevia di antiche civiltà lungo la Via della Seta. Questo Paese dell’Asia Centrale ha vissuto molte vite e, dopo l’indipendenza dall’URSS negli anni ’90, ha potuto riscoprire e rafforzare la sua identità unica. È una terra dove passato e presente dialogano: le yurte convivono con i grattacieli, e le leggende sciamaniche lasciano spazio alla scienza, senza scomparire. Diventano simboli.
E tra i simboli nazionali più emblematici non troviamo solo bandiere o monumenti, ma una figura antichissima, avvolta da oro e mistero: l’Uomo d’Oro, o Altyn Adam.
Nel 1969, nella città di Issyk vicino ad Almaty – antica capitale russa fondata nel 1854, oggi centro culturale e città kazaka più popolosa –, un gruppo di archeologi rinvenne lo scheletro di quello che si pensò essere un principe appartenuto alla tribù nomade dei Saka del V secolo a.C.
Il corpo era sepolto con un corredo funerario da guerriero, formato da oltre 4000 pezzi d’oro, decorato finemente con motivi di animali mitologici. Oltre a questo, furono rinvenuti anche un elmo, armi, un abito regale, uno specchio e una piccola borsa. Tutto ciò, ovviamente, fece pensare al ritrovamento del tumulo di un giovane principe guerriero: i simboli erano chiari e non potevano che indicare la provenienza del defunto da un rango elevato della società, regalando uno spaccato non solo sulla vita quotidiana dell’epoca, ma anche sulle pratiche funerarie sciamaniche eseguite dai Saka. Da questa scoperta nacque il mito dell’Uomo d’Oro, figura simbolo dell’indipendenza e identità nazionale, celebrato in monumenti, musei, francobolli, perfino sulle banconote moderne.

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I Saka erano una delle tante tribù nomadi che abitavano le vaste steppe dell’Asia Centrale, tra il I millennio a.C. e i primi secoli d.C. Erano parte del più ampio mondo scita, accomunato da uno stile di vita mobile, basato sulla pastorizia, sull’allevamento dei cavalli e su una profonda connessione con la natura. Non avevano città o confini fissi, le stagioni erano la loro guida. La loro società era strutturata in senso patriarcale ma flessibile, infatti non era raro che le donne ricoprissero cariche significative di comando, di consigliere del khan o di guide spirituali, partecipando anche ad attività guerriere. Svolgevano un ruolo centrale nella vita nomade: si occupavano di yurte, preparazione del cibo, gestione di latte e formaggi, filatura, tessitura e realizzazione di tappeti, oltre a prendersi cura di bambini e anziani. Erano coinvolte anche nella gestione del bestiame e nelle decisioni domestiche durante le migrazioni stagionali in cui il marito era spesso assente: preparavano le tende, carichi e si occupavano di molti compiti complessi, prendendo decisioni quotidiane e rappresentando la famiglia socialmente. La collaborazione era essenziale: uomini e donne dipendevano l’uno dall’altro per la sopravvivenza e la coesione sociale.
Il culto dei Saka si fondava sull’animismo: la convinzione che ogni elemento della natura, come gli alberi, gli animali, le montagne, perfino il vento, avesse uno spirito. Lo sciamano era l’unico in grado di comunicare con questi spiriti, spesso attraverso viaggi estatici indotti da tamburi, danze o piante psicotrope. Questa figura era molto più di un medico o di un sacerdote: era il mediatore tra il visibile e l’invisibile, tra la comunità e gli spiriti della natura. Anche gli animali avevano un valore totemico: cervi, lupi, aquile e soprattutto il leopardo delle nevi, considerata una creatura “guida” tra i mondi. In molte culture, come quella Saka, le donne erano considerate molto adatte proprio per questo ruolo, per via della loro connessione naturale col ciclo della vita e della morte. Infatti, in molte sepolture rituali sono stati ritrovati oggetti tipicamente associati a pratiche spirituali femminili: specchi, pigmenti rossi, amuleti, borse con erbe medicinali. Questi elementi suggeriscono che le donne non fossero solo depositarie del sapere magico legato alla vita e alla nascita, ma anche custodi del rapporto con l’aldilà.
Proprio questa centralità del ruolo femminile fu ciò che spinse l’archeologa e ricercatrice americana Jeannine Davis Kimball, nei primi anni 2000, a mettere in discussione il famoso ritrovamento avvenuto ad Issyk: l’Uomo d’Oro poteva essere in realtà la Donna d’Oro. La Dottoressa Kimball studiando i reperti ritrovati in altre tombe in Eurasia e comparandoli, formulò la prima sorprendente ipotesi che quello scheletro non appartenesse ad un giovane uomo, bensì a una giovane donna, più precisamente a una sciamana guerriera.
L’osservazione delle ossa ritrovate indicava caratteristiche più simili al corpo femminile, ma non solo: anche la simbologia presente negli ornamenti ritrovati rifletteva un’identità femminile, così come lo stesso specchio – simbolo di transizione – o i pigmenti rossi e la borsa, oggetti spesso utilizzati durante i rituali. A rafforzare quest’ipotesi c’è anche il fatto che circa il 20% delle tombe ritrovate in Asia Centrale contenenti questo tipo di ornamenti appartenevano a delle donne. Ecco perché l’idea che l’Uomo d’Oro potesse in realtà essere una sciamana regale, una figura rispettata e temuta, non è solo plausibile, ma culturalmente coerente con quel mondo.

Allora sorge spontaneo domandarsi: cosa cambia tutto questo? Il Kazakistan moderno ha scelto questa figura come simbolo della sua indipendenza e identità. Sulla cima del monumento all’Indipendenza di Almaty, una statua in bronzo dell’Uomo d’Oro troneggia fiera, armata e risoluta. E se fosse stato in realtà una donna? Forse cambierebbe tutto. O forse, non cambierebbe nulla. Sicuramente renderebbe la narrativa più affascinante: saremmo costretti a riconsiderare il ruolo della donna nelle società antiche, non più solo madre, nutrice e sorella. Non più solo colei che si prende cura e consola, ma anche colei che ferisce e difende. Quante altre storie del genere potrebbero esistere? Quante figure del passato potrebbero essere state etichettate come “maschili” solo per paura, comodità o abitudine?
Oggi, artisti e storici kazaki si stanno riappropriando di questa narrativa, proponendo reinterpretazioni di questo simbolo, come la “Donna d’Oro” dell’artista Anvar Musrepov, che definisce il mito dell’Uomo d’Oro “un esempio lampante di speculazione storica per promuovere il discorso del potere”.
Quindi, la domanda rimane aperta: chi giaceva veramente lì sotto? Un principe o una potente sciamana? Un guerriero o una principessa? Non lo sapremo mai con certezza. Ma, in fondo, le leggende vivono proprio grazie al mistero che le circonda.
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